Roma colonia Sarda? La tesi provocatoria di Porcheddu

Reduce da una serata sulla lingua sarda, organizzata dall’associazione S’Atza di Selargius, a caldo, pubblico questo post.

Il titolo del nuovo libro è una provocazione, la tesi sottostante invece non è nuova, ma già elaborata da Ugas e da Pittau: gli Shardana per un periodo erano padroni del Mediterraneo, tesi già riportata su questo blog nel post “Mari nostu”, il Mediterraneo degli Shardana.

Ne aveva parlato anche il linguista Massimo Pittau in un suo libro (“L’espansione coloniale dei sardi nuragici”) a proposito delle colonie Shardana del Mediterraneo, trovando questa toponomastica:

Cerdanya, Cerdà, El Cerdanyès, Coll de Cerdans, Cerdeja, Cerdanyola, Serra de Cerdanyola. in Catalogna.
Sartene, Corsica meridionale.
Baleari, «isole tirreniche», la popolazione Balare era presente anche in Sardegna, e un altro toponimo delle Baleari include il termine Nura.
La Sardana, il ballo popolare catalano.

L’archeologo Ugas, nel libro “Shardana e Sardegna, I Popoli del Mare, gli alleati del Nord Africa e la fine dei grandi regni”, Edizione della Torre, a sua volta, aveva trovato altri riferimenti storici:

Nella cartografia nautica greca, il mare sardo era tutto il mare intorno alla Sardegna, che veniva chiamato Pelagos Sardonios, fino allo stretto di Gibilterra.

Ancora fino al III secolo a.C. Eratostene definisce il mare sardo nella stessa area, e si estendeva fino al Rodano, alla Sicilia e a Cartagine (Polibio).

Anche Timeo estende la porzione di mare Sardo nella stessa area.
Strabone, chiama Mare Sardonio quello dove avviene la battaglia di Alalia.
Erodoto, lo considera fino all’Etruria meridionale.

Ugas aveva rilevato questa toponomastica nel Mediterraneo orientale:

Sartan, Giordano
Sardanas, Tiro.
Sardés, Lemno.
SardessosSardenos e Sardemisio, nell’Anatolia.
Serdica, l’attuale, Sofia in Bulgaria

Alcuni indizi potrebbero indicare una talassocrazia Shardana, che comunque va provata.

Porcheddu va oltre, arrivando alle conclusioni, che tutta la toponomastica mediterranea abbia origine dalla lingua sarda.

Per cui associa la toponomastica mediterranea al significato del termine in lingua sarda; più o meno come fa il linguista Dedola con la lingua semitica/accadica.

Suggestivi sono i termini Athene, che pure in Sardegna troviamo nel cognome Atzeni, scritto nel medioevo sia come Athen che come Açen; i termini Pallade, derivante da “palla”, paglia, cioè il nome delle stelle (in sardo sa bia de sa palla, è la via lattea)

Il lingua sarda, il termine nave, cioè “nai“, ha anche il significato di tronco, ramo.

Il lavoro di Porcheddu apre una via di studi, dagli esiti incerti.

Difficile pensare che nel Mediterraneo solo i sardi abbiano lasciato tracce linguistiche e gli altri no.

Più facile credere che anche i sardi abbiano lasciato tracce, visto che già dai tempi dell’ossidiana commerciavamo.

Il Mediterraneo est sèmpiri stètia una pratza, un mercato, incontro di popoli, crogiuolo di etnie vaganti per fondare nuove colonie basi di nuovi commerci e piazzeforti commerciali, che unificava e impastava le lingue in un fermento primordiale che sedimentava nomi di oggetti e frasi fatte, pronte per convincere l’acquirente.

L’uomo di Neanderthal navigava, quindi non si capisce perché non dovesse navigare la popolazione che ha costruito migliaia di domus de Janas, e di nuraghi, pozzi sacri, tombe dei giganti.

I porti del Mediterraneo erano delle gennas di accesso al territorio in cui si utilizzava la lingua dei commercianti che, viaggiando da oriente ad occidente, da nord a sud e viceversa, per vendere, dovevano parlare la lingua del posto, da millenni prima dei romani, dei greci, dei fenici e degli Shardana.

Gli oggetti venivano nominati allo stesso modo, se un commerciante era degno di tal nome: il bronzo, il vino, il sale, lo stagno, il ferro, le carni, gli animali, le armi, i soldi, le spezie, i termini delle transazioni commerciali, frasi fatte pronte per la trattativa.

Per la verità i fenici utilizzavano anche un’altra tecnica per la trattativa: arrivavano in un porto, lasciavano sulla spiaggia la merce e accendevano un fuoco e tornavano nella nave, ad attendere.

Gli indigeni locali lasciavano un mucchio di altri oggetti per lo scambio e andavano via.

I fenici tornavano a riva, e se non erano soddisfatti lasciavano la roba indigena sul posto e tornavano nella nave, dopo aver acceso un fuoco.

Se gli indigeni si ostinavano a non sganciare ulteriori beni, i fenici caricavano tutto quanto e non tornavano più su quel porto.

Probabilmente questa tecnica era utilizzata quando la nuova popolazione era sconosciuta, e non si conosceva il grado di aggressività; difficile pensare che venisse utilizzata anche per i porti noti e famosi di Cartagine, Carales, Massalia, ecc.

Lì si parlava la lingua dei commercianti del Mediterraneo, che plasmava lentamente ciò che i conquistatori, armi in pugno, non riuscivano a fare, se non dentro ad una ristretta élite di persone che saltava sul carro del vincitore: modificare le lingue dei popoli.

Almeno prima dell’istruzione di massa e della tv.

Qui la registrazione della serata organizzata dall’associazione S’Atza, a cui era presente anche prof. Francesco Casula.

Copertina presa da qui.

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