Ichnusa, l’orma divina (favola sarda)

Un tempo ai bambini sardi si raccontavano contus, contascias e paristorias, (racconti popolari, fiabe e leggende) fuori in vicinato, pighendi su friscu in s’istadi, o al caldo vicino a sa forredda in inverno.

Le storie della buona notte di Geronimo Stilton, dei Barbapapà o di Peppa Pig, ancora no ddui fiant.

Esistevano addirittura is maistus de contascias, persone abili nel raccontare le antiche storie tramandate oralmente, che le raccontavano per tutto il vicinato.

Per Italo Calvino avevamo un “modo di raccontare triste, magro, senza comunicativa, e pur sempre con una lama di ironia”.
Per noi che le abbiamo sempre sentite, ci sembrano magiche, anche se raccontate con un linguaggio asciutto, tipico de is contus antigus sardus, appunto.

La raccolta di Enna, da cui è tratto custu contu, include non solo storie dei personaggi tipici delle leggende sarde (Janas, Maria Mangrofa, Lughia Rajosa, etc.), ma anche storie della narrazione europea che in qualche modo erano penetrate, trasformate, anche in Sardegna.

Si racconta quindi di Chijinera (Cenerentola) che non aveva la fata madrina ma una Jana che tirava fuori i vestiti e su carru, de una nuxi (noce), de una mindula (mandorla) e de una landini (ghianda); c’è Cappuccetto Rosso, impersonato de Pietrin Pietrè , che si salva dall’Orco (lupi in Sardegna non ce n’erano) perché la mamma gli scuce la pancia mentre dorme, e la riempie de medra de brebei, fino a farlo scoppiare.

Ci sono poi le leggende di Eleonora d’Arborea, donna astutissima e senza tentennamenti, abile nell’arte del travestimento e nel maneggiare la spada magica, forgiata da belzebù in persona.

Non so voi, ma io a Natale ai miei nipoti regalerò un libro di favole sarde, in italiano o in sardo.
(Ai grandi si può regalare il CD “Le orecchie del re”, prossimamente in uscita su questo blog 😉

La diffusione della cultura sarda passa anche da queste piccole storie, che i bambini ricorderanno per sempre, riannodando il filo con le generazioni de is ajajus nostus.

Ichnusa, l’orma divina

“Dove esiste ora il Mar Tirreno, tra il complesso sardo-corso e la costa ovest dello stivale, c’era una volta, milioni di anni fa, un intero continente.

Si chiamava Tirrenide e, secondo quanto raccontano i vecchi marinai, era una terra fertile e felice.

C’erano buoni pascoli, terra da seminare, fiumi e canali d’irrigazione, montagne piene di boschi, vallate piene di frutteti, pianure ricche di frumento.

Non si conoscevano lunghi periodi di siccità né grandinate disastrose.
C’era lavoro per tutti: ognuno aveva il suo pezzo di terra da coltivare o un gregge da governare. Non esistevano né servi né padroni; e non c’erano banditi alla macchia che rendessero pericolose le strade, né tanto meno si conoscevano caserme di gernadarmi né prigioni.

La selvaggina in quella bella terra, era abbondante dappertutto e andare a caccia era un vero divertimento.
Lungo le coste non stagnavano le paludi con la malaria, perciò anche la pesca era buona e le barche navigavano con buon vento.

Ma poi, quasi d’improvviso, tutto cambiò e la pace si trasformò in tragedia.

Qualcuno incominciò a sconfinare nei terreni del vicino, alla ricerca di pascoli migliori; sparirono misteriosamente alcuni agnelli dalle greggi; furono bruciati, per invidia, vasti campi di grano e frutteti.

E allora ebbero inizio le vendette, le faide, le bardanas notturne contro gli ovili degli avversari e gli sgarrettamenti di intere mandrie di vitelli.

Cessò la pace in ogni angolo di quella terra e assieme alla pace cessò anche il benessere.
Una guerra interminabile imbarbarì il piccolo continente per anni e anni, coinvolgendo famiglie, paesi e intere città.

Finché, alla fine, anche anche Nostro Signore perse la pazienza e si arrabbiò.

Si arrabbiò così tanto che il cielo si squarciò come un telo troppo teso e si scatenò un diluvio che sommerse la Tirrenide per settimane e mesi, con chicchi di grandine giganteschi che distrussero tutti i raccolti; poi la terra si spaccò e i vulcani vomitarono fuoco e fango fuso nelle vallate; e il mare, dal canto suo, si gonfiò in ondate altissime che si abbatterono sulle case dei villaggi con furia terrificante.

In quel terribile cataclisma, la Tirredine incominciò a sprofondare. Sparirono sotto le onde i campi, i boschi, le vallate, le montagne e, insieme, anche le case, i paesi, la gente…

Ormai sembrava che non dovesse esserci più scampo per nessuno e che di quella terra non dovesse restare mai più nemmeno il ricordo, quando Nostro Signore si pentì infine del suo stesso furore e fermò il diluvio con un gesto della mano.

Poi si affacciò dal cielo e guardò preoccupato dabbasso, dove il mare ancora agitato si accaniva contro l’ultimo lembo di terra.

Allora Nostro Signore mise fuori dalle nuvole il suo gran piede divino e bloccò quel pezzo di terra, prima che affondasse del tutto.

Così nacque la Sardegna, che proprio per questa ragione ha ancora la forma dell’orma di un piede.

Ma non di un piede qualsiasi; è il piede di Dio.”

Fiabe sarde, scelte e tradotte da Francesco Enna, presentate da Salvatore Mannuzzu. Oscar Mondadori.

Fonti: M.Serra, in L’Unione Sarda LXVII, 1995, L’impronta di Dio, e Enna 1975, La leggenda di Ichnusa.
Area: Campidano – Logudoro.
Aerne Thompson: non classificata
Thompson 1956: Motivo z692 (Atlantide).

Il mito platonico di Atlantide e della favolosa età dell’oro delle origini dell’umanità riappare in questa leggenda sulla Tirrenide: continente effettivamente esistito e sprofondato durante il Pliocene. Il cataclisma naturale è qui attribuito a volontà divina, con riferimento diretto al mito del diluvio universale (Motivo A1010). Nelle versioni più note, il cataclisma è attribuito ora a Zeus, ora a Giove e persino allo stesso Gesù.

Copertina: http://web.tiscali.it/domusnovas/pagine/storia/leggenda.htm

 

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